giovedì 10 gennaio 2019

FULMINI E SAETTE: DALLA MITOLOGIA ALLA FILOSOFIA DELLA NATURA .

Nella mitologia greco-romana, i fulmini venivano considerati come le frecce di Giove scagliate contro i mortali che si erano macchiati di qualche colpa; il termine saetta, sinonimo di fulmine, deriva proprio dal vocabolo latino “sagitta” cioè freccia. 
 Nel museo archeologico di Aquileia (UD) è conservato un curioso bassorilievo raffigurante Giove nell’atto di colpire un malcapitato fermatosi a fare “pipì” in un luogo proibito; forse l’analogo dei cartelli “manteniamo pulito il verde pubblico” che si trovano anche ai nostri giorni. 
 Nella mitologia nordica, al contrario, i fulmini erano visti come le scintille prodotte dal battito del martello di Thor su un incudine. 
 Non quindi un’interpretazione di merito, ma più una analogia con quanto i fabbri dell’epoca dovevano aver osservato forgiando i loro strumenti e le loro armi. 
Curiosamente, con questa similitudine, i popoli del nord si avvicinarono di più a quella che è la reale natura del fulmine, cioè quella di una grande scintilla atmosferica. 
 Se la mitologia ha cercato di inquadrare i fulmini in un contesto, se non comprensibile, almeno accettabile per la maggior parte delle persone, sicuramente questo tentativo non poteva bastare ai “filosofi naturali”, gli antesignani dei moderni scienziati, per i quali i fulmini dovevano avere anche una causa materiale e un meccanismo generatore. 
 Il filosofo Empedocle (490-430 a.C), cercando di dare una risposta a questa necessità, sosteneva che il fulmine era una parte della luce del sole catturata dalle nubi più dense che, con fragore, riusciva a liberarsi dalla sua trappola. 
 Anassagora (500-426 a.C.), al contrario, sosteneva che il fulmine era una parte dell’etere, una sostanza estremamente tenue che riempiva i cieli ove si trovavano i pianeti, attirato verso il basso e fatto cadere nel mondo materiale. 
 Aristotele (384-322 a.C.), contestando entrambi, sosteneva che il fulmine era il risultato di un’esalazione secca che si liberava dalle nubi a seguito della condensazione dell’aria in acqua. Questa esalazione, diceva Aristotele, era “espulsa dalla parte più densa della nube verso il basso cosi come i semi che schizzano dalle dita [quando cerchiamo di schiacciarli]”. 
 L’urto dell’esalazione secca contro le nubi circostanti era, sempre secondo Aristotele, la causa del tuono. 
 Lucrezio (98-55 a.C.), nel suo “De rerum natura”, sposando la teoria atomistica di Democrito di Abdera, considerava il fulmine come dovuto al movimento di particelle molto piccole e leggere che, proprio per la loro leggerezza, riuscivano a passare anche attraverso agli oggetti materiali. 
 In questo modo Lucrezio rendeva conto degli incendi alle volte appiccati dai fulmini anche all’interno delle case. 
 Il tuono e il fulmine, sempre secondo Lucrezio, avevano una causa comune ma erano indipendenti: l’urto tra le nubi causava sia il rimbombo (tuono) che la liberazione degli atomi leggeri che andavano a formare il fulmine. 
 Questi tentativi di spiegazione possono sembrare a prima vista inconsistenti, ma, se calati nella realtà dei tempi in cui questi pensatori vissero, denotano una fervida fantasia e soprattutto una capacità di osservazione della natura invidiabile. 
 Forse, tra qualche migliaio d’anni, gli scienziati del futuro sorrideranno delle nostre teorie.