martedì 24 maggio 2011

24 MAGGIO 1915, L'ITALIA ENTRAVA IN GUERRA...E IL PIAVE MORMORO'.



Il conflitto fece 700mila morti e lasciò una profonda crisi politica, sociale ed economica.

«Il Piave mormorava/, calmo e placido, al passaggio/ dei primi fanti il 24 maggio».

Il 24 maggio 1915, l'Italia entrava in guerra contro gli Imperi centrali, gettandosi nella Prima Guerra Mondiale dieci mesi dopo l'inizio delle ostilità in Europa.

Era un lunedì.

Alle 3:30, precedute dai tiri degli obici, le truppe italiane oltrepassarono il confine italo-austriaco, puntando verso le «terre irredenti» del Trentino, del Friuli, della Venezia Giulia.

Nel 1918, a guerra finita, un poeta e musicista napoletano, Giovanni Gaeta, più noto con lo pseudonimo di E. A. Mario, trasformò quel momento nella «Leggenda del Piave», una canzone destinata a entrare nella memoria collettiva degli italiani.

L'Italia entrò in guerra divisa tra interventisti e neutralisti, dopo un disinvolto cambio di alleanze, dalla Triplice all'Intesa. Sulle sponde del Piave e dell'Isonzo, nelle trincee del Carso e della Bainsizza, di Asiago e di Passo Buole, di Caporetto e di Vittorio Veneto lasciò 700 mila morti.

Dalla guerra ottenne Trento e Trieste, ma ne uscì prostrata, lacerata da una profonda crisi politica, sociale ed economica, che la portò in breve al Fascismo.

Eppure la «Grande Guerra», come fu chiamata, è forse l'unica guerra della quale gli italiani abbiano - come si suol dire - una «memoria condivisa»: l'ultimo atto dell'epopea Risorgimentale.

La Prima Guerra Mondiale fu un enorme massacro: coinvolse 27 paesi, costò 10 milioni di morti, 20 milioni di feriti, enormi distruzioni.

Fu la prima guerra moderna.

Gli eserciti si trovarono impantanati nelle trincee.
Nuove armi furono impiegate su larga scala: aerei, sottomarini, carri armati, mitragliatrici, gas tossici, come il fosgene e l'iprite, che prese nome dalla località belga dove il 22 aprile 1915 fece le prime vittime.

La guerra provocò la dissoluzione dell'Impero austroungarico e di
quello ottomano e mise fine a quello degli Zar, travolto dalla rivoluzione bolscevica del 1917.

Segnò il crollo di tre dinastie secolari, gli Asburgo, gli Hohenzollern e i Romanov.

Fu l'inizio del declino della vecchia Europa e sancì l'ingresso sulla scena mondiale, come grande potenza militare ed economica, degli Stati Uniti, intervenuti nel 1917 a salvare le sorti dell'Intesa.

Si portò dietro un'epidemia - la «spagnola» - che tra 1918 e il 1919 provocò più morti della guerra; un'inflazione e una recessione che culminarono nella Grande Crisi del 1929; un'eredità di odi, frustrazioni e rivalità nazionali che nell'arco di due decenni sfociarono fatalmente nel secondo conflitto mondiale.

Una delle poche voci che si levarono contro la guerra fu quella di Benedetto XV, il «Papa della pace» del quale Joseph Ratzinger ha voluto raccogliere idealmente l'eredità, scegliendo il nome per il proprio pontificato.

Egli il 1 agosto 1917 (poco prima della rotta italiana a Caporetto del 24 ottobre 1917) chiese invano alle potenze belligeranti il disarmo e il ricorso all'arbitrato per la «cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno più apparisce inutile strage».

Ma troppi erano i motivi che spingevano l'Europa al massacro.

La rivalità economica e gli interessi in Medio Oriente di Regno Unito e Reich tedesco; il revanscismo francese per Alsazia e Lorena; lo scontro tra pangermanesimo tedesco e panslavismo sul Baltico; gli appetiti delle maggiori potenze per le spoglie del fatiscente impero ottomano; l'irredentismo in Italia e nei Balcani, dove il serbo Gavrilo Princip fece scoccare la scintilla, assassinando l'erede al trono austriaco a Sarajevo.

Ma anche il clima culturale di un'epoca che - tra lo Stato «Dio reale» dell'idealismo hegeliano e il positivismo darwiniano di Spencer - concepì la guerra come sbocco naturale delle vertenze internazionali.

In Italia, contro l'entrata in guerra furono i cattolici, i socialisti, i giolittiani.

Per la guerra furono il governo Salandra, i liberali, i nazionalisti. Interventista fu Gabriele D'Annunzio, interprete a modo suo del «superuomo» di Nietzsche.

Interventista fu Filippo Tommaso Marinetti, che nel «Manifesto del futurismo» aveva proclamato la guerra «sola igiene del mondo».

Da neutralista in interventista si trasformò repentinamente il socialista Benito Mussolini, che lasciò la direzione dell'«Avanti!» per fondare l'ultranazionalista «Popolo d'Italia» e fu espulso dal Psi.

Nel 1919 la Conferenza di pace di Parigi, dominata dal presidente americano Woodrow Wilson, deluse le aspettative degli interventisti.

L'Italia ottenne Trento, Trieste e l'Istria, più l'Alto Adige etnicamente tedesco; ma non Fiume e la Dalmazia.

Il presidente del consiglio Orlando e il ministro degli esteri Sonnino, per protesta, abbandonarono temporaneamente la conferenza, restando fuori anche dalla spartizione delle colonie tedesche. Ne nacque il mito della «vittoria tradita», che mosse D'Annunzio e i suoi legionari a occupare Fiume e a dar vita all'effimera «Reggenza del Carnaro» e fu utilizzato a proprio vantaggio dal nascente partito fascista, avviato alla conquista del potere.

Anche la «Leggenda del Piave» di E.A. Mario finì per servire allo scopo.

La crisi economica, la svalutazione della lira, la debolezza della classe dirigente liberale, le ripetute crisi di governo, le agitazioni di piazza e l'occupazione delle fabbriche nel «biennio rosso», i timori della Corona e della borghesia fecero il resto.

Dal 4 novembre 1918, data della firma dell'armistizio con l'Austria, al 22 ottobre 1922, data della Marcia su Roma, non passarono che quattro anni.

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